VI

INTRODUZIONE ALLA POETICA ARIOSTESCA

Se la storia della poesia è per noi non solo l’allineamento dei valori raggiunti di tanto in tanto da singole personalità, quasi lampi che emergano da un vuoto buio, ma la concreta vita di esperienze personali inserite e realizzantisi in una continua discussione con i risultati e le offerte di precedenti esperienze, se quindi noi crediamo alla necessità della storia letteraria nella sua continuità non accademica, ma di poetica con cui gli autori fanno i loro conti per poi superarla nella propria poetica e nella propria poesia, è chiaro che anche lo studio su di una poetica come quella di Ludovico Ariosto vuol essere continuamente ricollegato con la storia delle idee estetiche dell’Umanesimo e del Rinascimento, con le offerte del gusto e della critica di quell’epoca, con la trama delicata di idee, di suggestioni, di toni poetici, che costituisce sempre l’inevitabile clima in cui un poeta, anche di quelli che sembrano piú immediati ed ingenui, piú selvaggi e istintivi, misura, discute il suo programma di creatore, i termini letterari entro cui la sua ispirazione, la sua esperienza vitale gli appare esteticamente valida e non solo socialmente aggiustata.

Anche il piú rivoluzionario e il piú segreto dei poeti, fuori di ogni ingenua e sorpassata concezione romantica di poeta naturale (poeta nascitur, ma in realtà si diviene) che a cuore riscaldato crea immediati capolavori, ha la sua discussione col tempo poetico vicino o lontano con cui entra in contatto e in cui sceglie, secondo i punti essenziali del suo gusto, le tecniche, che piú lo interessano simpaticamente o reattivamente, in cui rielabora suggerimenti e avvia polemiche da cui nascono, anche se non espressi in termini discorsivi, con la loro novità originale, la sua poetica, il suo metodo poetico. Mediante i quali il suo dono particolare, il suo mondo che da sentimentale si fa immagine poetica per organica concretizzazione fantastica, viene ad essere espresso non in un assurdo esperanto poetico o in un incomunicabile crittogramma personale o in una koinè momentanea e cronistica (il sogno dei futuristi e di un certo ingenuo verismo popolare!), ma in una lingua poetica storica anche se originalissima e magari personalmente deformata come in un Joyce o (senza la minima relazione che non sia anzi di poli lontanissimi) in un Burchiello.

Né d’altra parte si può risolvere la storicità di un autore in una generica storicità di problemi umani di quel tempo, di quel costume perdendo quanto di caratteristico vi è nell’opus poeticum e senza perciò condizionare, determinare assolutamente la sua personalità in precise storie di tecniche sviluppantisi vasarianamente, di motivi contenutistici (la storia della Madonna, o la storia di Orlando). E certo, piú del generico «inquadramento» storico, che va dalla piú ingenua e pittoresca ricostruzione della corte estense, del paesaggio umbro ecc. (elementi piuttosto accessori e rudimentali), al panorama ideologico e morale, alla Weltanschauung e al problema del secolo, serve alla comprensione della poesia la precisa individuazione di una poetica che si forma sí dall’esperienza vitale dell’autore e dalle sue intuizioni, da una storia umana a cui nessuno di noi si sottrae, ma che diviene veramente poetica, metodo di costruzione solo in quanto si sviluppa in una piú generale poetica di un’epoca letteraria.

Poetica personale che si potrebbe dire, con ampiezza piú moderna, quel punto in cui tutta l’esperienza e l’ispirazione di un poeta si presenta in direzione poetica, si fa capace di costruzione, e che quindi, per originale che sia, non può non presentarsi entro una tradizione anche se rivoluzionandola violentemente.

Si esce cosí dalla genericità di una intuizione romantica che considera la poesia come ispirazione assoluta e gratuita, senza d’altra parte ricadere in una vecchia posizione positivistica che adegua la poesia alla scienza ricercandovi un progresso tutto materiale o tecnico di perfezionamento assurdo. La novità della intuizione idealistica della poesia come espressione personale, come iniziativa totalmente personale, irripetibile, e in sé assoluta e sufficiente (e quindi tutte le esperienze, le discussioni sono viste storicisticamente a parte subiecti cosí come avviene nel concreto agire poetico, anche nel suo piú inconscio affiorare di suggestioni interiori, di impressioni, di automatici comandi surrealistici che vengono poi assunti da un centro organizzatore e formativo, e quindi tutte le famose influenze e derivazioni son viste come suggerimenti ed esperienze del soggetto creatore poetico), viene cosí rispettata, ma insieme resa piú veramente storica se conosciuta entro la sua direzione poetica e attraverso questa collegata alla storia letteraria non intesa tanto come zona inferiore rispetto alla poesia, quanto proprio come storicizzazione della poesia nella sua costruttività, nella sua traduzione critica, nella sua capacità di farsi discutere quale metodo, quale posizione di gusto.

Uno studio cosciente di tali esigenze ha soprattutto il vantaggio di sottrarre la poesia non alla sua individuazione umana personale, ma all’eccessivo alone psicologico in cui spesso rimane per un residuo gusto romantico-decadente, e di portare la definizione del poeta sul suo vero terreno artistico, di dare una vera dignità alla sua espressione che risulta sempre da un’intuizione vitale cresciuta in proporzioni artistiche, come problema d’arte e quindi come discussione con un mondo di esperienze precedenti e di lingua poetica che nessun vero poeta può trascurare per una immediatezza zingaresca.

Cosí l’Ariosto (anche quello delle Satire che sembra un bonario narratore autobiografico) viene a prendere il suo vero aspetto di altissimo artista mosso nella sua creazione fantastica da problemi di poetica, attento ad una tradizione letteraria anche se per superarla in una nuova sintesi del tutto originale. Non dunque una sorta di pacioccone sorridente o di distratto invasato, non un narratore senza problemi, e non il casuale frutto di un’epoca, ma il cosciente risultato di una poetica personale che elabora le premesse di una poetica, di un gusto piú generale e che nelle sue misure costruttive, funzionali ad un mondo da realizzare, risente quella intuizione della vita, quel sentimento che non potrebbe farsi altrimenti poesia, ma solo informe tentativo di espressione pratica. E tanta retorica arbitraria sul “divino” Ariosto, quasi come un divino ragno che cava inesauribile e senza sforzo da sé un filo di lucida poesia, viene cosí a cadere, come d’altra parte lo stesso labor limae, presentato troppo come semplice lavoro aggiunto, viene a fondersi piú giustamente con lo stesso lavoro costruttivo, creativo di cui non è che una continuazione, ugualmente ispirata e ugualmente motivata su misure di poetica concreta, non di ripulitura ornamentale, esteriore.

Perciò chi studia l’Ariosto, piú che riempirsi, come faceva la vecchia critica positivistica, di descrizioni pittoresche dei pranzi estensi, delle ville ferraresi, di tutto quel colore locale che dovrebbe da solo aiutare a comprendere il mondo riflesso nell’Orlando e nelle opere minori, deve sentire quella che fu l’esperienza interiore dell’Ariosto nel suo contatto con la vita, la sua posizione ideale nei problemi del suo tempo, soprattutto la sua posizione di cultura letteraria, la sua discussione del tempo, con la tradizione italiana, con la lingua poetica, e servirsene per individuare la sua poetica. In cui i suoi gusti, le sue esperienze, le sue preferenze si unificano e si fanno via, strumento di poesia (è in quella sede che, per esempio estremo, si dovrà risentire il suo atteggiamento di uomo sobrio, concreto fino al particolare citato dal figlio «appetiva le rape») e fuori della quale le caratteristiche umane, le idee sue e del suo tempo restano su di un piano di cronaca biografica, non di sintesi ai fini di un’opera artistica.

Nel pieno, nel vero Cinquecento (che è quello dei primi decenni e che non è certo quella fotografia realistica, appunto per ciò unilaterale, di tanti storici e interpreti, ma il grande periodo in cui la nuova intuizione umanistica sboccia dalle pazienti ricerche filologiche, dalle apologie de dignitate hominis in concreta civiltà ove platonismo e realismo si fondono in una vitalità esperita e idealizzantesi) l’Ariosto è la voce piú alta di questo momento di grande civiltà e pur ancora in pieno fervore creativo, in fresco gusto di esperienze senza troppi limiti normativi. E proprio in tal senso rappresenta l’acme rinascimentale: una organica espressione che va dalla esperienza piú concreta e mondana (il mondo delle Satire) alla creazione di un sopramondo ideale, ma non astratto, non allegorico, naturalistico e platonico insieme, dal gusto delle cose al culto della bellezza perfetta, da un’intensa vita sentimentale («quanto cuore aveva l’Ariosto!») ad una trasfigurazione altissima che si può paragonare a quella di un Piero della Francesca, con una certa floridezza raffaellesca corretta dall’intellettualismo di Paolo Uccello, o dal frizzante nervosismo del Pollaiuolo.

Paragoni che naturalmente amiamo sentire come laterali, ma che possono indicare una tendenza piú figurativa che patetica (alla Tasso) nell’Ariosto e che servono sia a indicare la serietà tutta stilistica delle sue ricerche, sia la cultura cinquecentesca piú vasta a cui è giusto appellarsi quando si parla dell’Orlando Furioso. Poiché crediamo che la civiltà rinascimentale abbia mirato soprattutto alla espressione figurativa (come quella romantica tendeva alla musica dall’espressione sentimentale), è naturale che parlando del suo piú grande poeta ci si rivolga specialmente ai pittori, agli architetti per trovare il luogo ideale della sua espressione[1]. Senza con ciò ridurre l’Orlando Furioso a una pura traduzione in termini di lingua di una fantasia pittorica, e senza (esteticamente) accentuare uno scambio di tecniche che risulta in una retorica incapacità critica di affermare un valore nel suo campo specifico. In un Cinquecento profondamente vitale e non estetizzante (come apparve in fondo al Burckhardt, al De Sanctis, e piú scioccamente al gusto dannunziano), in cui i termini non sono solo il Principe e il Furioso, o il petrarchismo e l’Aretino, ma nelle corti l’alta spiritualità di una Isabella d’Este e il brutale realismo delle lettere con cui a questa Rinaldo Ariosto[2] chiedeva dei rimedi contro un male comune alla principessa e al cortigiano, la sifilide (non dunque estremi letterari, ma poli coesistenti di una civiltà non tutta idealizzabile e raffinata, né tutta convenzionale e immorale), l’Ariosto compare, ripetiamo, anche come esponente intero di quel momento piú alto e l’Orlando Furioso si pone come capolavoro assoluto di quella civiltà con tutte le sue aspirazioni e tutte le sue direttive di esperienze, con il suo senso inarrivabile della forma, con la sua classicità che non è sterile classicismo dato che quella perfezione sale da una esperienza diretta e totale, non da una sovrapposizione di puro decoro o, come nel Neoclassicismo, di spasimo per una civiltà archeologica, lontana.

Non piú l’eco degli entusiasmi filologici dei primi umanisti, non piú i tronfi elogi del nuovo soggetto della vita, ma insieme ancora un ardore vivo, non un appagamento stanco; una libertà spirituale non condizionata né dall’ammirazione umanistica per un passato perfetto e ricostruibile con le sue stesse regole né dalle norme di società e di costruzione artistica in cui il gusto rinascimentale si andò irrigidendo verso il 1535-40 (quando cioè l’Ariosto aveva finito di scrivere e di vivere) per una regolarità della perfezione che il primo Cinquecento meno curò, raggiungendo la forma con maggiore istinto, con originalità non abnorme, ma piú intima e spregiudicata, per una misura piú interiore.

La grande fioritura dei trattati che indicano l’aspirazione cinquecentesca ad una tipizzazione degli uomini secondo modelli ideali e perfetti era da poco cominciata e non aveva ancora operato come regola, quanto come summa degli ideali comuni di quella civiltà (il Cortegiano che certo l’Ariosto conobbe ancor prima della sua pubblicazione è fra i trattati cinquecenteschi il piú fresco e problematico, ricco piú di una rappresentazione che non di una didascalicità alla Galateo). La boria nazionalistica che doveva condurre ad una sufficienza pericolosa[3], specie quando si incontrò con la Controriforma nell’isolamento italiano dal resto d’Europa, non era ancora affiorata a motivo di irrigidimento retorico di classicismo nazionalistico, e le suggestioni del mondo europeo, della letteratura romanza nutrivano ancora la fantasia dei letterati, che attraverso il rinnovato amore dei provenzali e del Petrarca e del Boccaccio riprendevano contatto con la tradizione piú schiettamente italiana ed europea. Non si era ancora arrivati alle dispute suscitate dalla Poetica aristotelica che, pubblicata nella traduzione latina del Pazzi nel 1536, commentata nella Poetica del Daniello, uscita nello stesso anno, agí in estensione solo verso il 1550.

È quindi da ben precisare che, a voler trovare la posizione dell’Ariosto nella poetica del suo tempo, bisogna escluderlo da ogni contatto con le dispute aristoteliche e cioè con il grande periodo critico del Cinquecento, con l’epoca delle «poetiche» e dei trattati estetici ispirati alle regole pseudoaristoteliche con le quali dunque l’Ariosto non fece i suoi conti, tanto piú che non abbiamo elementi per ammettere la sua conoscenza di un sunto di Averroè della Poetica apparso in latino nel 1481 a Venezia, e che ebbe del resto scarsissima eco nel mondo letterario.

Pure, poiché nelle polemiche aristoteliche affioravano motivi ed interessi già maturi nel primo Cinquecento, si deve cercare l’accordo o la discussione sia anche non esplicita dell’Ariosto con quegli atteggiamenti che vennero poi precisandosi e irrigidendosi nel periodo a cui egli non partecipò. E si deve ricordare che, se le “poetiche” aristoteliche son ben lontane dalla libertà ariostesca, lo spirito che animava i loro presupposti, il gusto di un’aurea perfezione, di un’organicità superiore che esse finivano per richiedere artificiosamente a regole e precetti razionalistici, è pur quello che l’Ariosto sentí e realizzò, accordandosi cosí con il motivo essenziale della poetica cinquecentesca che solo col suo posteriore razionalismo esasperato avrebbe potuto smentire il capolavoro di quel culto della forma che essa aveva reso ben piú alto e assoluto rispetto al semplice decoro umanistico. È da questo motivo essenziale della poetica cinquecentesca che l’Ariosto (discutendo nelle sue varie opere con le singole tradizioni letterarie) trae la sua poetica essenziale, la sua tendenza ad un’armonia varia e mossa, ad una serena perfezione carica di vitalità, a quell’eleganza che piú tardi venne scarnificata e regolarizzata dando luogo ad edifici solenni, non piú ad organismi vivi e frementi.

Come d’altronde, se il punto fondamentale dell’estetica cinquecentesca è la giustificazione contro la condanna platonica della poesia che era stata intuita come di origine divina e di funzione civilizzatrice dall’Umanesimo del Poliziano e se il compito della poesia si era diviso nelle dispute cinquecentesche nelle due direzioni oraziane («aut prodesse volunt aut delectare poetae»), nell’Ariosto è già implicata una destinazione edonistica che prevale su quella civilizzatrice polizianesca (si veda la Satira VI, vv. 70 ss.), ma che si unifica in una giustificazione (immediata, non controversa), basata sul carattere tutto umano, intimo alla civiltà che la poesia aveva ai suoi occhi. C’era cioè un accordo dell’Ariosto con i motivi affermati e latenti del suo secolo prima ancora che alcuni di essi si manifestassero in sede di discussione e si anchilosassero tanto da dover discutere il torto e il diritto della piú libera fantasia, il torto e il diritto di una attività tutta estetica dalla cui concreta sollecitazione essi si erano sviluppati criticamente. Mentre disaccordo si può ben sentire appunto nei riguardi di quel classicismo pedantesco che doveva togliere ai poeti una spontaneità creativa che l’Ariosto non pensò neppure (quanto diversamente dal Tasso!) di doversi limitare.

Perché l’Ariosto è anche rispetto alla poesia precedente in una posizione di pieno equilibrio, fra il senso polizianesco e umanistico di una poesia come civilizzatrice ed esaltatrice di valori umani e quella classicità della forma (ingenuamente celata dietro la parola diletto) che in pieno Cinquecento si sdoppierà nella discussione sul moralismo ed edonismo poetico: pieno equilibrio che si fonda su di una esigenza di poesia come studio umano che è ormai piú concreta dell’esaltazione umanistica, e lontana dalle precisazioni moralistiche o psicologiche del Cinquecento aristotelico e, peggio ancora, aristotelico-controriformistico.

Ma tu, del qual lo studio è tutto umano

e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,

il mormorar d’un rio che righi il piano,

cantar antiqui gesti, e render molli

con prieghi animi duri, e far sovente

di false lode i principi satolli [...]

(Satire, VI, vv. 49-54)

dirà l’Ariosto del “poeta” e, a parte la seconda terzina piú cortigianesca, la prima terzina con la sua netta esclusione di interessi allotri ed astratti, con la sua indicazione del carattere tutto umano della poesia, chiarisce bene l’accordo profondo della poetica ariostesca con il motivo intimo del suo tempo.

Quell’aspirazione ad una solennità magnifica che trionferà nel Tasso con una abbondanza che straripa ben presto in secentismo, quelle idee di classicismo impeccabile, marmoreo che dagli scritti critici e dai tentativi creativi del Trissino passano a gonfiarsi in schemi grandiosi, pseudomichelangioleschi, quel bisogno prezioso di immagini meravigliose e di patetismo che dalle discussioni e dal petrarchismo salgono nel secondo Cinquecento a nuova poetica, sono ancora assenti dal mondo ariostesco e dalla poetica del suo tempo[4]: la poetica dei primi anni del Cinquecento che risente ancora nella sua sana floridezza del gusto secco e amarognolo della poetica quattrocentesca.

Fuori dunque dei risultati critici del Cinquecento maturo e pronto a trapassare in un classicismo austero e grandioso che venne a sfarsi in musica sensuale e concettosa pur nelle ampie volute classicistiche nel Seicento, la poetica ariostesca vive di una vita sobria, di una discussione piú creativa che critica, in un ambito che giunge al Bembo, ma non al Trissino, in una zona di cultura letteraria piuttosto quattrocentesca fra Boiardo, Poliziano, piú Petrarca e l’epica cavalleresca romanza come fonte di suggestioni, di pretesti, di situazioni.

Anche di fronte al Bembo la posizione dell’Ariosto è piuttosto indipendente, dato che, mentre la presenza delle Prose della volgar lingua fu essenziale a lui come precisazione della propria lingua sulla base del fiorentino letterario, come contributo cioè alla sua concretezza, e l’atteggiamento degli Asolani poté precisare quell’ideale amor platonico che nel romanzo ritorna cosí sfumato e mondanizzato, l’Ariosto non aderí all’idea bembesca e generalmente cinquecentesca di un modello necessario per raggiungere la perfezione, idea mutuata dal ciceronianismo ed accettata dall’Ariosto nelle rime petrarchiste o nelle commedie, ma non discussa neppure per il poema, che si nutriva di fantasie estranee al mondo classico e che rimaneva cosí piú naturalmente esente da tali direzioni. Tanto che si può dire che l’Ariosto, piú fedele figlio della teoria dell’imitazione nelle opere minori, mantiene al suo spirito poetico una classicità piú intima nel Furioso, proprio per l’estraneità della tradizione cavalleresca a misure e modelli puramente classici, ché questa tradizione romanza antica e popolare dà la possibilità di una maggiore indipendenza, di una maggiore freschezza e di risultati altissimi alla fantasia dell’Ariosto che pure vi creò una perfezione, un ritmo concluso, una armonia serena, una lucidità di visione che, modernissime, potevano ben dirsi il frutto migliore della classicità cinquecentesca. Cosí l’Ariosto, piú che da particolari discussioni con le teorie poetiche che venivano solo svolgendosi al suo tempo, ma che ancora del resto non si erano codificate chiaramente, trae la sua poetica da una intelligenza profonda del motivo estetico del suo secolo che quelle teorie produsse e giustificò: una tendenza ad un’armonia varia e mossa, ad una serena perfezione carica di vitalità, ad un decoro classico, ad una eleganza sapidi di umore e di contemporaneità. Una perfezione e un decoro che poi i teorici e il gusto piú tardo isolarono e scarnificarono dando luogo ad edifici solenni, piú che ad organismi vivi e frementi.

C’è nella Satira IV un nostalgico ricordo del caro tempo giovanile in cui, nella zona di Reggio, il giovane poeta sentiva i primi inviti alla poesia. È frutto di un movimento sentimentale e può interessare per lo studio della poesia delle Satire. Ma vi sono degli spunti di un’intima poetica che è alla base di ogni costruzione ariostesca e che, pur presentandosi in veste psicologica, può indicare un atteggiamento e una aspirazione, oltre che una qualifica generale di ogni origine della poesia. Dopo aver ricordato quei luoghi ridenti e armonici

(non mi si può de la memoria tòrre

le vigne e i solchi del fecondo Iaco,

la valle e il colle e la ben posta tórre[5])

(vv. 124-126)

afferma però che nessun paesaggio, il piú lieto del mondo, potrebbe permettergli di scrivere poesia se il suo animo non fosse già di per sé sereno:

Ma né d’Ascra potrian né di Libetro

l’amene valli, senza il cor sereno,

far da me uscir iocunda rima o metro[6].

(vv. 133-135)

Questa disposizione, cosí apertamente confessata (una delle rare confessioni ariostesche sulla poetica, e in realtà anche questa fatta in sede di autobiografia), non ha certo nulla di straordinario circa quanto noi possiamo aspettarci dall’Ariosto, ma certo incentra bene la sua interpretazione dall’intimo di quel concetto della poesia come serenità, risultato di organico atteggiamento sereno, non di dramma spirituale, ma di interpretazione serenatrice della vita multiforme e contrastante, che il Cinquecento nutrí in ogni ricerca tecnica particolare e senza perdere l’intellettualismo di un Quattrocento nervoso e indagante, e che corrisponde bene (e nello stesso suono del verso) a quel gusto di disposizione armonica, di ordine (classico, non neoclassico):

[...] e la ben posta tórre.

Un ordine non artificioso e schematico, ma ricreato con i movimenti stessi di una natura superiore, estremamente fantastica e pure estremamente semplice e concreta. Tutta l’euritmia che gli ultimi quattrocentisti cercarono in forme briose e nervose, quel tono di superiore controllo che non rivela lo sforzo che tutto il Cortegiano richiedé, la musica leggermente acerba del Poliziano, il gusto di un’avventura che placa se stessa nel Boiardo, confluiscono in questa poetica del «cor sereno» che sembra appiattirli e che invece li rileva in un lavorare cosí perfetto che fa scomparire i tocchi della mano, e rivela le sue particolari ricerche solo ad un’attentissima intelligenza.

Poetica del «cor sereno» che potrebbe indurre alla solita valutazione superficiale dell’Ariosto quasi un fanciullo divino e non quel poeta e quell’uomo di gusto altissimo che giunse alla levigatezza finale attraverso intuizioni estetiche, ricerche di ritmo e di immagini che farebbero invidia al piú intellettuale dei poeti moderni. Poetica del «cor sereno» che assume tanto piú importanza di soluzione centrale dei problemi cinquecenteschi proprio in quanto la sappiamo in relazione con una visione realistica della vita che avvicina l’Ariosto, piú di quanto non si creda, al Machiavelli e ai moralisti cinquecenteschi piú puri:

in questa assai piú oscura che serena

vita[7], [...].

Un «cor sereno» dunque che è risultato di una esperienza, di un superamento e di un’accettazione, di un’unificazione sotto legge di armonia e di proporzione che è musica, proporzione pittorica in continuo movimento, e che insieme assume, in nuova vita non di astratta calligrafia ma di sensibile disegno, quella ricchezza sentimentale che nella poetica quattrocentesca tendeva a farsi fase popolare o scherzosa della poesia e che nel tardo Cinquecento si andava costituendo come polo di tensione eloquente, di complicazione morbosa, guida turgida e preziosa, melodrammatica che solo nel Tasso fu capace di alti risultati.

Individuata cosí la poetica ariostesca in una essenziale ricerca di superiore serenità, o d’una perfezione classica a cui con maggiore parzialità tendeva la poetica umanistica, incapace di superare l’impressione che la perfezione era già stata per sempre raggiunta dagli antichi ai quali bisognava esclusivamente ispirarsi e incapace di trasferire in tutta la sua pienezza un’esperienza vitale su di un piano letterario che restava di decoro o di parziale immediatezza a sfondo ironico e caricaturale (la letteratura fiorentina di divertimento), deve essere compito di uno studio, a cui queste pagine preparano: precisare le relazioni che corrono fra le varie tendenze della poetica di primo Cinquecento e le ricerche ariostesche, fra le offerte della poetica quattrocentesca e le soluzioni del Furioso.

Ma intanto, se ci si domandasse di ricostruire subito la poetica ariostesca nel suo agire, diremmo anzitutto che essa si realizza essenzialmente nel Furioso e che nelle Liriche, Commedie, Satire fa delle prove idealmente se non sempre cronologicamente precedenti e funzionali, e perciò interessantissime, ma non definitive, verso la creazione di un tono madrigalesco-platonico nelle liriche italiane, verso un puro esercizio di costruzione in quelle latine, verso un tono realistico nelle Commedie, e realistico-discorsivo ben piú interessante nelle Satire. Toni, che nel Furioso sussisteranno e si fonderanno su di un piano piú alto, su di un piano totalmente fantastico, quasi in una diversa dimensione spirituale. Piena del senso bizzarro e “romantico” della poesia cavalleresca, avvivata da ricerche particolari e non da una facile e generica bonarietà luminosa, ma tendente ad un sopramondo senza fratture, la poetica del Furioso mira a riprendere le molteplici esperienze letterarie e ad impostarle intorno ad una essenziale esperienza: quella del ritmo vitale nella sua varietà, nella sua avventurosità, nei suoi contrasti, nelle sue esplosioni e nei suoi abbandoni, filo che l’intelligenza individua in una concretezza amata e vissuta e che la fantasia solleva e redime in motivo poetico conservandogli nella massima purezza poetica il calore (che solo a volte diventa eloquente) dell’esperienza concreta, umana, e definendolo continuamente in proporzioni musicali e pittoriche, insomma non contenutistiche, con quei tagli non striduli, ma sicuri che hanno tanto fatto parlare di ironia ariostesca. Donde la volontà di creare un tono fantastico e insieme naturale che tutta la critica migliore ha piú o meno esattamente accertato, la volontà di creare (sogno massimo del Cinquecento!) un mondo che apparisse naturale, fuso, scorrevole in proporzioni perfette e tutte irreali, un mondo diremmo in cui la deformazione, tanto cara ai quattrocentisti per superare la bruta realtà, conducesse ad un risultato cosí coerente ed organico, cosí limpido e umano da poter essere scambiato per una sublime continuazione di quel motivo di serenità vitale che il secolo sentiva come sine qua non di poesia. Una perfezione dunque che non nasce da un divino dipanare da cantastorie, ma da una mente poetica che agí su precise intuizioni di poetica, su direzioni non casuali, ma in cui ispirazione e decisione si fusero come avviene nella grande poesia che non è né costruzione intellettuale né immediatezza zingaresca.

Una profonda intelligenza poetica (che pure non esclude la spontaneità e vuole anzi provocare condizioni di azzardo suggestivo) è impiegata dall’Ariosto nel costruire le linee del suo poema, nell’incanalare la sua sensibilità musicale in un ordine che già di per sé può apparire quasi il simbolo della piú alta civiltà cinquecentesca, il suo inveramento ideale, tanto è insieme perfetto ed intimo, tanto è multiforme, vario e pure armonico, impeccabile, ben lontano da un classicismo trissinesco, dal virgilianesimo di un Sannazaro, e insieme dal puro procedimento narrativo dei cantari anche se ripreso dal gusto di un Pulci o dalla serietà di un Boiardo.

La precisazione della poetica ariostesca nel suo capolavoro serve anche a liberare il Furioso da inutili problemi moralistici (patriottismo, satira della cavalleria ecc.) che rimangono, sí, quelli storici, punti di contatto con i trattatisti del suo tempo, ma che sono superati in una ricerca meno parziale, superati e svolti secondo esigenze estetiche, dato che lo scopo della poetica ariostesca era la costruzione di un mondo che non fosse solo la semplice idealizzazione del mondo reale nella sua bruta evidenza e tanto meno la rappresentazione di una tesi o di un programma, ma un mondo assoluto, basato sul ritmo, sulla coerenza stilistica, sul puro fluire di una visione che dell’esperienza umana prendeva il piú intimo calore, non il sussidio di fotografiche conferme.

Mirava l’Ariosto, con una tendenza che mai abbandonò nel lavoro lunghissimo del poema, a un sopramondo rinascimentale, quasi ad un al di là del suo naturalismo umanistico, quasi una Divina Commedia del Cinquecento, quasi l’unico paradiso che quell’epoca poteva sognare, paradiso di perfetta agevolezza, in cui le favole, le avventure, i viaggi, le belle donne sono come un’allegoria non medievale (ma ogni poesia è allegoria, ha un senso piú profondo e piú vero – proprio poeticamente – di quello che i comuni lettori credono di afferrare e di tradurre in prosa comune!) di quella aspirazione alla serenità, alla concordia nella varietà di quella visione naturalistica e platonica, totalmente umana che il Rinascimento possedeva ormai, oltre le polemiche umanistiche, oltre ed entro le ricerche archeologiche di un passato affascinante.

Questo sopramondo è costruito coerentemente alle sue premesse di superiore armonia con un metodo poetico che consiste nell’assumere il ritmo piú profondo della vita nella sua molteplicità (qui il ritmo di una vita errabonda e avventurosa in concrete esperienze umane) come spunto della fantasia che vi costruisce una realtà non astratta, gelida, ma di dimensioni nuove, irreali e pur non assurde e sbiadite come nelle fantasie di certo romanticismo scadente. Dimensioni nuove che si possono capire se ci si riferisce ai pittori dell’epoca e se si riflette in quale spazio si estrinsechi il viaggio della fantasia ariostesca. Spazio illusorio e pure concreto, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente accorciate, cui collabora un tempo ora fugace, ora rallentato, intimo alla libertà della memoria e pure chiaro come la divisione delle giornate reali.

Donde quella geografia strana e pur non astratta, a volte preciso paradiso naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di un’Europa medievale che l’Ariosto risentiva dalle epopee cavalleresche: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Donde un paesaggio concreto e soprareale, chiaro e suggestivo, perché il poeta vuole evocarlo con estrema semplicità, ma su misure irreali e mai pretende di farne, come un po’ avveniva nei quattrocentisti, il protagonista della sua poesia, pronto a disfarlo in quel ritmo musicale che unisce, simbolo di una vita superiore, tutte le avventure, tutte le fiabe incastonate nel poema come meravigliosi scorci romanzeschi, tutti i personaggi che, si noti bene, la poetica ariostesca non cura in senso drammatico, come entità organiche inconfondibili e in sviluppo (come se fossero persone), ma che piuttosto vivono in funzione di tutta una scena, di tutto il ritmo fondamentale. Cosí ad esempio non è tanto un carattere che il poeta cerca in Angelica, quanto in quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità coesistenti con la sua grazia e la sua bellezza l’inizio di svolgimenti fantastici, di avventure poetiche diverse secondo il tema principale che in quel momento si svolge. Come d’altronde la poetica ariostesca non cerca forme statuarie ed immobili, drammaticità psicologica e commovente, ma svolgimento di temi, rappresentazioni mosse in cui la sua passione e gentilezza sentimentale (Zerbino, Isabella, Fiordiligi) vive tutta come accrescimento di musica, di tono piú caldo e concreto, che non rimane mai solo, antologico, ma sempre confluente nella sinfonia generale del poema.

Perciò, mentre il suo metodo tende a creare una realtà tutta fantastica in cui le cose della vita umana si ripresentino in una nuova naturalezza tutta alleggerita e pure vaporosa di concretezza, in cui un’altissima deformazione (quella che opera scopertamente nella Primavera del Botticelli) viene a rinnovare dall’interno oggetti e paesaggi che appaiono non un’astrazione a freddo, ma con l’agevolezza, la semplicità di cose appena ritratte senza profonda trasformazione, è naturale anche che l’attenzione dell’Ariosto non si restringesse alla parola o al verso, ma si rivolgesse alla linea in cui parole e versi soggiacciono ad una fluida unità che non cerca accenti isolati in isolate espressioni, ma una continuità musicale, non estremi risultati lirici in un’immagine isolata, quanto la sua funzione per una trama piú vasta. Cosí che l’Orlando è ben poco antologico e la lettura intera è solo capace di dar la misura completa di ogni singolo episodio, di ogni singolo tema. Ed anche in ciò l’Ariosto inverava nella maniera piú alta quella tendenza all’opus, al poema, all’unità che i minori e gli intellettualistici pedanti andavano a cercare in nuove assurde Eneidi, e piú tardi in conclusione di regole.

Una poetica, quella dell’Ariosto, che dà alla floridezza cinquecentesca una tensione spesso soffocata per troppo splendore, e alle ricerche troppo tecniche del Quattrocento una meta di perfezione serena.


1 Tanta era la tendenza pittorica del primo Cinquecento che, al di là di una comune metafora, ci pare significativa l’indicazione del Castiglione, nella lettera dedicatoria, del suo libro «come un ritratto di pittura della Corte d’Urbino, non di mano di Raffaello o Michel Angelo, ma di pittor ignobile, e che solamente sappia tirar le linee principali, senza adornar la verità di vaghi colori, o far parer per arte di prospettiva quello che non è» (ed. a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni, 1910, p. 4).

2 Vedi la lettera CLXXV nell’edizione dell’epistolario ariostesco a cura del Cappelli (Milano, Hoepli, 1887).

3 Si ricordi l’episodio del Longolio del 1519.

4 Si veda, in rapporto a questa esigenza di distinguere e descrivere in maniera storico-critica l’età del secondo Cinquecento, R. Scrivano, Il manierismo e la letteratura del Cinquecento, Padova, Liviana, 1959.

5 Satire, IV, ed. cit., p. 38.

6 Ibid.

7 Orlando Furioso, IV, 1, vv. 7-8.